vedi nota allegata

Singolare che su alcuni blog di spessore ci si occupi,  contemporaneamente,  del rapporto fra parola e immagine.  Può sembrare superficialmente una questione un po’ oziosa –  specialmente se considerata come un’opzione finale, da decidersi dopo che il processo strettamente fotografico ha compiuto il suo percorso (ecco la foto: metto il titolo, non lo metto, la spiego, non la spiego…) –  ma non è così:  l’argomento investe il senso del nostro fotografare  sino alle radici,  e una riflessione su questo può addirittura portarci – a ritroso- ad uno stravolgimento del nostro approccio, ad un cambio di direzione.
In “come un cavallo selvaggio”, Fulvio Bortolozzo  sottolinea l’importanza di considerare il fotografico nella sua purezza,  nella sua capacità di generare significati, preservandola da strati di parole che oggi sempre più vanno a presentarla quando non a sovrapporsi. Veramente sincero e coinvolgente il suo intervento.
In “Quattro più uno fa molto” Michele Smargiassi ci propone qualche riflessione sulla “capacità della parola e dell’immagine di comunicare assieme, fianco a fianco, e di produrre un discorso sensato su qualcosa di  sensato”.
In un altro sito, che ora purtroppo non riesco più a ritrovare, recentemente è apparso un articolo dove si esortava i fotografi a scrivere. E – se non ne sono capaci – a far scrivere qualcun altro sui loro progetti. Pena, finire out.
In questo brevissimo spezzone di video,  che avevamo già linkato, Roberta Valtorta sottolinea come l’immagine abbia bisogno, per lo più,  della parola.

E si potrebbe andare avanti all’infinito, perché quasi in ogni saggio sulla fotografia si trovano almeno due paroline… sulle parole.

Chi ha ragione? In un certo senso tutti. Non  lo dico per eccesso di diplomazia.
Volendo estremizzare, ci sono fotografie che singolarmente pulsano, che aprono insondabili porte  dentro di noi, che nella loro ambiguità si prestano ad una ridda di ipotesi e interrogativi. Una sola parola, foss’anche il semplice titolo, sarebbe d’impiccio.
Ci sono fotografie che abbisognano del titolo, non come accessorio capace di accrescerne la leggibilità, ma addirittura quale corpo costituente dell’opera.
E ci sono tante, tantissime fotografie che necessitano di una spiegazione, per poter essere comprese.

Queste banalità ovviamente non sfuggono agli  autori, docenti e giornalisti sopra citati, ma evidentemente ognuno di loro evidenzia il fare fotografia più congeniale, costruzione o riconoscimento che sia.

E’ impossibile trarne una regola generale.  E’ però opportuno che il fotografo acquisisca coscienza della presenza o dell’assenza delle parole nel suo agire, e non solo nel momento della presentazione: la coerenza con i propri intenti prevede anche questa calibrazione.  Un processo di sintesi e di scarnificazione verrebbe incrinato dalla stessa didascalia che invece in un altro percorso concettuale sarebbe parte integrante e premeditata. Tout se tient.

E non possiamo certamente accusare di sincretismo un fine saggista come Claudio Marra, che nell’indispensabile  “Fotografia e pittura del novecento”   scrive: “…L’autarchia è profondamente sbagliata…” “… individuare una specificità artistica del mezzo, fuori da un serrato confronto con tutto il sistema arte, può anche portare a qualche contributo parziale,  ma alla fine rimane una scelta miope e senza sbocchi”.
La fotografia va quindi considerata alla luce di quanto le succede intorno, ma non solo: le commistioni fra i vari generi artistici hanno consentito negli anni accostamenti sempre più audaci, e francamente sembrerebbe poco credibile la costruzione di un fortino a difesa dall’infezione parolaia.

Rimane però il pericolo che il bla-bla imperante, in parte dovuto ad un mercato che deve in qualche modo giustificare promozioni altrimenti dubbie o esili, finisca per dilagare, negando spazi a silenzi visualmente più felici. Ben venga quindi l’intervento riequilibratore di Bortolozzo, a ricordarci che esiste anche altro, dove il suggerimento non sconfina nella spiegazione.

Giuseppe Pagano

3 pensieri su “vedi nota allegata

  1. Giuseppe, ho apprezzato pienamente il tuo pensiero quando ci son tornato su, dopo avere letto gli interventi di Bortolozzo e di Smargiassi che ci hai tempestivamente proposto.

    dici benissimo, è impossibile trarre una regola generale; condivido però la tua perplessità finale verso i tanti pensieri di sapore a volte privato (sto edulcorando) e che invece leggiamo di frequente in accompagnamento a fotografie che – consapevolmente o meno – si teme non sappiano reggersi da sole… siamo in ambiti molto lontani da certi racconti siciliani di Sciascia e Scianna.

    Mi pare ragionevole osservare comunque che se non è opportuno piegarsi a certa moda del momento – parolata, “emozionale ad effetto” – non si debba neppure cedere in senso assoluto a richiami puristi e a senso unico.

  2. Caro Giuseppe, ti ringrazio per l’attenzione che hai voluto dare al mio pensiero. Vorrei solo precisare, per chi ci legge, che la mia posizione sull’argomento non intende essere “purista”, ché di purezze non ne conosco su questa terra, né di invito alla resistenza in stile “Fort Apache” alle contaminazioni. Mi limito a sottolineare che esiste un piano di esperienza e conoscenza squisitamente fotografico, il quale va ben compreso e messo nel conto prima di avventurarsi in progetti che prevedano anche l’uso di altri linguaggi e mezzi.

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