Come si “legge” un libro fotografico

Dopo un tempo in cui ho pensato che fotografia volesse dire “attrezzatura fotografica” e in cui parlavo – non sempre in modo appropriato – di fotografi che non conoscevo realmente, ho scoperto i libri fotografici.

La letteratura mi ha attratto molto, da sempre, e mi sembra che leggere un libro di parole sia meno complesso che leggere un libro fotografico.

Siamo tutti abituati al significato delle singole parole, alla sintassi, alle regole ed alle forme verbali. L’autrice/scrittore ha definito la struttura del testo, denomina i personaggi per nome, sostantivi, aggettivi, verbi e gli altri elementi linguistici danno la possibilità di descriverne l’essenza e l’evoluzione, definire e descrivere l’azione principale ed i vari, ulteriori flussi narrativi. Tutto questo, le parole e le combinazioni di parole, le frasi, le strutture, vengono usate dall’autore per realizzare e trasferire alla lettrice la narrazione. Il “linguaggio scrittura” è uno strumento tradizionalmente codificato e quindi trasmissibile e comprensibile. La disposizione del testo, la lunghezza, l’articolazione in capitoli, la maggiore o minore strutturazione contribuiscono alla composizione di detta narrazione.

Anche un libro fotografico deve essere considerato come un’opera concepita unitariamente, anche se spesso siamo tentati di focalizzarci sulle singole foto e non sull’insieme. Dobbiamo tenere presente che l’autrice del libro, il fotografo, la curatrice, assemblano l’opera scegliendo le fotografie, editandole, sequenziandole, disponendole secondo la propria intenzione, proprio come la scrittrice o il poeta. Il “linguaggio fotografia” è meno codificato, forse semplicemente meno conosciuto ai più. Le didascalie, i testi introduttivi possono esserci o non esserci ed il risultato meno univoco, i legami tra le immagini sono più tenui, il messaggio di ogni singola foto potenzialmente ambiguo, molto ambiguo, ed aperto a inferenze e interpretazioni.

Queste riflessioni scaturiscono dalla osservazione dei miei libri fotografici, accomunati nei miei interessi ma così diversi tra loro: Paolo Pellegrin diverso da Roger Ballen, da Joel Meyerowitz, Valentina Tamborra, Paul Graham, Alec Soth, Davide Monteleone, Raymond Depardon e Evelyn Hofer, Koudelka, Stephen Shore, Martin Parr, Eugene Richards, e tanti altri.

Spesso li sfoglio, alcuni più volentieri, altri mi hanno deluso e sono tentato di cederli. Resto colpito da questa o quella fotografia sulla pagina, ma non basta, capisco che devo cercare oltre, più in profondità. Dentro un libro fotografico c’è più della foto singola che salta fuori dalla pagina, c’è quello che l’autore ha voluto inserire, e trasferire, a chi guarda. Oltre le singole fotografie c’è un filo, ma questo filo è spesso non chiaro: c’è di più, ci sono più possibilità, più stratificazioni, più ramificazioni. Ciò che vedo si inserisce in uno spazio multidimensionale che può essere ricchissimo, e non solo per quello che ci mette l’autore. È altrettanto importante ciò che ci metto io che guardo.

Sfogliare un libro fotografico probabilmente parte dal visibile e dalle impressioni e associazioni che suscita e poi spazia tra le suggestioni di tutto ciò che nel libro è stato messo dall’autore, e che la “lettrice” prova a mettere in contatto con le proprie sensazioni e quello che sa e conosce, tessendo una tela che appare ineffabile.

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