La fotografia, i cliché e la realtà

La fotografia riprende la realtà e ripropone la realtà. E l’apparecchio fotografico non è altro che una “macchina automatica” per rappresentarla. Prima il processo non era tanto “automatico”, ora invece si.

Scianna nel suo Abecedario fotografico dice “se non c’è la mela non c’è la foto della mela” ed ha ragione. Vediamo una mela, mettiamo in azione la nostra produttrice automatica di immagini e sforniamo la fotografia di una mela. Ma a pensarci bene, nessuna delle arti figurative riesce a prescindere dalla realtà. Non la non-pipa di Magritte, non l’allegoria metaforica di Dalì “la persistenza del tempo”, non Boccioni con le sue “forme uniche nella continuità nello spazio”. Tutti partono da una conoscenza visuale, ma anche ontologica, del reale, anche se poi lo rendono surreale. Ma in partenza sempre reale è.

Il fotografo sempre dalla realtà parte e la realtà è banale, è davanti a noi ogni giorno. Le possibilità di trasfigurazione sono molto limitate: bianco e nero, colore, fotogramma quadrato, rettangolare, grana, toni, saturazione. Certo, posizioniamo la nostra composizione all’interno di quel quadrato o rettangolino ma il contenuto sempre realtà conosciuta è.

E poi abbiamo i cliché e i cliché dei cliché, sia perché ormai abbiamo tutti una certa idea in testa degli elementi della realtà e della loro rappresentazione – basta scrivere un qualche termine su Google images e saltano immediatamente fuori i cliché delle immagini -, sia perché sono standardizzati gli approcci alla trasfigurazione.

E i cliché si autoalimentano grazie alla proliferazione di immagini ovunque, cliché che vengono continuamente rafforzati. Anche gli algoritmi di riconoscimento delle immagini non fanno che consolidare i cliché, trovando tante immagini più o meno uguali.

Come se ne esce?

Prescindendo dalla tecnica, rendendo assolutamente trasparente il mezzo di produzione automatica delle immagini – pur preservandone la funzione – e lavorando su ciò che vogliamo rappresentare.

In una lotta senza quartiere contro i cliché.

Conoscendo la storia della fotografia, conoscendo i cliché, anche quelli che produciamo da soli, ed essendo consapevoli di quello che i nostri lavori effettivamente dicono.

Creatività e originalità partono sempre dal produrre opere, nel nostro caso fotografie, che nessuno ha mai fatto prima, utilizzando abilità che non tutti hanno. E soprattutto opere che fanno domande che urgentemente richiedono risposta, non necessariamente dando la risposta.

Basta fare qualche ricerca e qualche screenshot per rendersi conto della banalità e ripetitività di tutto il resto.

6 pensieri su “La fotografia, i cliché e la realtà

  1. Auspicherei che l’impronta la lasciasse il fotografo, se ci riesce.
    Quali sono le specificità dell’apparecchio? Che ha un sensore? Che richiede una pellicola? Che può produrre immagini 24×36, 6×6, 6×7, 6×4.5, 4’x5′ o 8’x10′, APS-C e via scendendo? Che produce risultati “fangosi e sgranati” o super-nitidi? Per me è impensabile partire dall’idea “vediamo un po’ che negativo o file mi produce la macchina e poi vedo cosa ci faccio”. Questo è quello che fanno quelli che non mirano a lasciare un’impronta, o non sanno lasciarla, che forniscono la versione e colori dell’immagine assieme a quella in bianco e nero e poi lasciano scegliere lo spettatore.
    Solo il fotografo deve lasciare l’impronta, anche scegliendo l’apparecchio, ma questo deve essere trasparente ai fini di quello che l’immagine comunica. In altre parole lo spettatore, ma soprattutto l’immagine, non ne devono essere influenzati.

    • Mi riferisco al fatto che ogni macchina, cioè la combinazione formato-focale-film o formato-focale-sensore/algoritmo, produce un’immagine differente e non intercambiabile. Che il fotografo, una volta scelta la macchina, può solo agire all’interno del programma codificato nella macchina e quello che succede dopo parte necessariamente da quello che la macchina ha prodotto.
      Questo é un dato di fatto intrinseco che dipende dalle caratteristiche fisico-chimiche o fisico-elettromagnetiche della macchina e non mi é chiaro come suggerisci di renderlo irrilevante e, soprattutto, non mi é chiaro in che modo questo evita le foto banali.

      Ps: per forza nessuna delle arti figurative riesce a prescindere dalla realtà, posto che per definizione le arti figurative sono quelle che rappresentano la realtà nei suoi aspetti concreti, con la forma che gli oggetti hanno in natura. Altrimenti é arte astratta, inclusa la fotografia astratta, che é altra cosa.

      • Credo il punto sia nell’accezione del termine “irrilevante”. Certamente la scelta dello strumento determina il risultato visuale e chi fotografa parte da una scelta che dovrebbe essere innanzitutto di contenuto e poi tecnica. Certo, una Holga non produce gli stessi risultati di un apparecchio di grande formato. Se Alec Soth sviluppa il suo “Sleeping by the Mississippi” scegliendo una grande formato, non parte dall’elemento tecnico, ma dall’idea di rappresentazione di un percorso umano e di vita che egli rappresenta secondo le sue intenzioni con una macchina di grande formato.

        Quel che mi preme è evitare il rischio dell’inversione dei fattori, cioè che si relazioni il risultato del messaggio visuale meramente con la scelta tecnica, cosa che purtroppo spesso avviene.

        PS la relazione arti figurative e realtà è chiara, in particolare in fotografia. Anche qui mi preme un momento di consapevolezza: non necessariamente una realtà che ci colpisce, e per questo fotografiamo, può assurgere a motivo di rappresentazione visuale universale: quella già è avvenuta, basta usare Google Images.

Lascia un commento