Robert Frank, The Americans e la lettura dei libri fotografici

L’intenzione era di guardare avanti, di consegnare alla storia i vari Cartier-Bresson, Burri, Capa, Eggleston, Berengo Gardin, Scianna, Parr, etc. e di porre l’accento sui libri di fotografi contemporanei e meno noti. Questo sapendo che la pubblicazione di un libro si basa su una valutazione di mercato e quindi l’accesso dei “nuovi” autori può esserne influenzato.

L’idea non veniva da una improvvisa furia iconoclasta ma, una volta “consolidato” il panorama dei fotografi considerati maestri, per orientarsi su una produzione fotografica che rappresenta realtà attuale e sul lavoro di autori contemporanei. Nonostante questa idea di fondo, “The Americans” era lì, in sospeso, da molto tempo e ad un certo punto l’ho preso.

Ne avevano già scritto qui Lorenza, Ottavio, Alberto, Franco, ed altri.

L’ho sfogliato e, a prima vista, mi è sembrata una delle tante raccolte di immagini della società americana degli anni 50 che conosciamo. Ma non è mai bene fermarsi alla prima vista, è necessario spingersi oltre le impressioni suscitate dalle singole immagini. Conoscere di più per capire, per integrare la limitazione informativa ed alla ambiguità intrinseca delle fotografie contestualizzando, per guardare con mente aperta ciò che la fotografa propone, associa. O nasconde.

Metà anni 50, Robert Frank, fotografo commerciale svizzero immigrato in USA dopo la seconda guerra mondiale, ottiene una borsa di studio Guggenheim per un lavoro diverso da quelli che fa di solito: per documentare l’America. Viaggia con la moglie ed i due figli e gira per gli Stati Uniti un paio d’anni, si intrufola in bar, uffici, party, nei diner, entra nella fabbrica della Ford, va ai funerali, fotografa processioni, gente famosa, sconosciuti, viene fermato, preso per un sovversivo comunista. Passa tre giorni in cella in Arkansas, accusato di spionaggio, un’altra volta uno sceriffo da qualche parte al sud gli intima di lasciare la città entro un’ora. Impressiona 767 (chissà perché non 770? o 760?) rulli di Kodak Tri-X e scatta quasi 28000 fotografie, di queste 28000 ne seleziona inizialmente un migliaio e poi le 83 della scelta definitiva.

La prima pubblicazione è in Francia nel 1958, con Robert Delpire, proprio l’editore e curatore amico di Henri Cartier-Bresson. Dopo aver pubblicato il libro in Francia, al suo ritorno in USA incontra Jack Kerouac e gli mostra le fotografie. Kerouac si innamora – in particolare della piccola operatrice dell’ascensore – e scrive una introduzione all’edizione americana del 1959 che accompagna perfettamente le immagini. Ma nonostante l’introduzione di Kerouac, che associa il lavoro di Frank alla Beat Generation, il libro è male accolto dalla critica e dal pubblico. Il MoMA si rifiuta di venderlo e Minor White lo definisce “una rappresentazione bitorzoluta dell’America da parte di un uomo triste“. La rivista “Popular Photography” descrive il lavoro come “una triste poesia di una persona molto malata” ed deride le immagini come “sfocate senza un senso, granulose, esposizioni fangose, orizzonti ubriachi e pessime esecuzioni“.

© Robert Frank – The Americans. Viva, attrice della Factory di Andy Warhol.

È un’America che esteriormente vive l’esaltazione postbellica, la crescita, le opportunità da cogliere, e questo libro è uno shock, anche dal punto di vista visuale: per la prima volta un fotografo mette in secondo piano l’impostazione formale contrapponendola alla meravigliosa ed orribile realtà. Non si pone alcun limite nella rappresentazione di una realtà che sembra dover essere solamente cruda, sfidando la tradizione della fotografia documentaristica che fino a quel momento seguiva regole di trasparenza e di oggettivazione e che sicuramente esclude dalla propria estetica ogni influenza del pensiero, delle emozioni ed dei punti di vista del fotografo. Robert Frank fa esattamente il contrario e rende ben visibile se stesso e ciò che pensa. Ignora ogni regola compositiva formale stabilita da Cartier-Bresson e Walker Evans, non vedendo nessuna ragione di emularli, e va contro la nozione di fotografia come linguaggio universale facilmente comprensibile, sfida i canoni stilistici, la perfezione tecnica, composizione, esposizione e messa a fuoco. Non si preoccupa minimamente di inserire nelle sue immagini elementi estetici, al contrario, le sue inquadrature appaiono casuali, finanche sciatte. Ma dimostra anche, qua e là, di conoscere benissimo la fotografia perfetta.

© Robert Frank – The Americans

Se è vero che Dorothea Lange con la sua The Migrant Mother ha mostrato povertà e disperazione in uno scenario socialmente ed economicamente depresso, Frank invece mette lo spettatore davanti alle smagliature e alla “povertà”, le divisioni e discriminazioni in una società in un momento in cui essa si autorappresenta in modo brillante e di successo. Pone in evidenza la contraddizione con l’hubris di chi aveva vinto una guerra, viveva in un boom economico e probabilmente pensava di poter tutto, in un turbine di realizzazione individuale e collettiva. Una iconica rappresentazione della società americana del secondo dopoguerra, del momento di crescita, nella quale Frank evidenzia l’alienazione, l’angoscia, la solitudine, mostrando gli americani semplicemente così come erano, senza abbellirli e evidenziando il contrasto, negato ma esistente, tra il sogno e la vita di tutti i giorni.

The Americans è strutturato in quattro sezioni, ciascuna inizia con la ripresa di una bandiera americana e segue il ritmo del movimento e della stasi, la presenza e assenza di persone. Attraverso elementi tematici, formali e concettuali collega le immagini, presentando una struttura evidente, una narrazione empatica ed un preciso ordine.

Jason Eskenazi, che all’epoca della mostra celebrativa dei 50 anni di The Americans faceva il sorvegliante al MOMA, svolge una ricerca: chiede a otto fotografi di commentare la fotografia del libro che li aveva colpiti di più. Ciascuno di questi collega le fotografie di The Americans ad una propria esperienza diretta e forte della società americana. Il lavoro di Eskenazi è una inconizzazione metaforica che richiama alla memoria persone reali incontrate le cui immagini si sono impresse nella memoria. È questo che Robert Frank riesce a fare: attraverso le sue fotografie si collega al vissuto, alle esperienze, alle sensazioni di chi guarda. E questo vale con sfumature simili per tutti i fotografi che Eskenazi ha interrogato. E’ l’unione del vissuto reale, il collante delle esperienze.

Il libro ha cambiato in modo drammatico lo sguardo degli americani su se stessi, oltre che il modo con cui i fotografi guardavano attraverso il mirino. Mostra ordinari americani che conducono una vita ordinaria, non necessariamente il sogno americano degli anni 50. Le fotografie che rimangono, insieme al suo intero archivio, vengono poi vendute da Frank nel 1978 per coprire le sue spese di vita e per finanziare la sua attività di regista.

Cosa differenzia Robert Frank da Vivian Meier, da Garry Winogrand, da Walker Evans, da Dorothea Lange? Epoche diverse, tra l’altro: Evans e Lange lavoravano durante e dopo il trauma della grande recessione del 1929, Robert Frank documenta la società turbolenta e contraddittoria del secondo dopoguerra. Nel 2004 in un’intervista, il fotografo ha sostenuto che quel tipo di fotografia era passata e obsoleta. Affermazione ingenerosa, come se lui avesse messo una parola definitiva, anzi, fornito una visione iconografica definitiva, sugli Americani. Forse dovuta al fatto che col tempo si era disinteressato alla fotografia di documentazione.

Ma il buon Robert svizzero-americano ha torto quando sostiene “ora ci sono troppe fotografie. È travolgente. Un flusso di immagini, perché dovremmo ricordare qualcosa? È troppo, troppe cose da ricordare“. Critica banale, come se fossero le fotografie a dover essere ricordate e non ciò che le fotografie significano, rappresentano e documentano. Lo dimostrano le tante opere sugli americani e sull’America: Lange ed Evans, prima di lui, su una società depressa e piegata, Eugene W. Smith sul medico di campagna, Stephen Shore e Mark Cohen sulla società urbana ed extraurbana, Diane Arbus e la sofferenza della diversità, Gordon Parks sulla condizione afroamericana, Friedlander, Winogrand, il narratore della vita cittadina, Eggleston, l’esteta del colore che rappresenta la banaltà del quotidiano, Sternfeld, Meyerowitz, emulo di Winogrand e ammiratore di Frank, fino ad Alec Soth, che narra l’America nascosta, rurale, in modo altrettanto crudo e diretto.

È l’unica/ultimativa rappresentazione della società americana? Certamente no.

Ce ne sono molti altre, innovative, e molti fotografi continuano a rappresentarla, come Gabriele Galimberti che in Amerigunsche forse si ispira al titolo del volume di Frank – mostra insieme i cittadini ed i loro giocattoli letali. E quello che altri fotografi fanno in altre parti del mondo: Davide Monteleone sulla società russa, Jason Eskenazi sull’Asia, Valentina Tamborra sulle isole dell’Artico.

La fotografia di documentazione sarà sempre il mezzo per mostrare “inquadrature” della società in dati momenti, unico nelle sue caratteristiche. E con il libro fotografico inserisce questa “inquadratura” in una dimensione del tutto autonoma. Certo, si possono utilizzare tecniche narrative comuni ad altri mezzi, ma la fotografia, la stampa fotografica e il libro fotografico camminano da soli. E sono oggetti complessi che richiedono diversi livelli di contestualizzazione: dell’autore e della sua opera, di ciò che rappresentano in un determinato contesto e il suo momento storico e del modo con cui lo spettatore, con il suo vissuto, i suoi interessi e le sue emozioni, si relaziona con detti oggetti.

A pensarci, però, sembrerebbe – ma va verificato – che non ci siano più libri ed opere fotografiche che creino un vero sommovimento nel mondo della fotografia. Ma forse è solo narrazione.

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