Nussenzweig v. diCorcia: autenticità, privacy e fotografia

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La vicenda la conoscete: Philip-Lorca diCorcia, nel 1999, era già un fotografo affermato nel mondo dell’arte contemporanea; suoi lavori erano stati esposti al MoMA, alla Tate Modern, al Withney Museum; aveva pubblicato Streetwork e una monografia per il MoMA; aveva ricevuto due National Endowement for the Arts e un Guggenheim Fellowship.

La sua produzione sino ad allora era caratterizzata da immagini apparentemente spontanee e non posate, in realtà attentamente costruite in precedenza, in cui l’uso dell’illuminazione artificiale contribuiva a tradire l’aspetto casuale. Dapprima i suoi soggetti erano amici e familiari, poi modelli a pagamento (Hustlers, 1990-1992, realizzato assoldando prostituti maschi sul Santa Monica Boulevard per la loro usuale tariffa in cambio della partecipazione agli scatti).

Rovesciando l’approccio tenuto sino ad allora, nel 1999 si mette a lavorare ad un nuovo progetto (Heads, 1999-2001). Nasconde dei flash comandati via radio sotto ad un’impalcatura per lavori in corso in Times Square, New York, in un punto di grande passaggio; realizza quindi una serie di ritratti in primo piano a passanti del tutto ignari (e qui al fotografo di strada amatoriale nostrano iniziano a rizzarsi i capelli in testa), a cui il particolare tipo di illuminazione conferisce un aspetto di fotografia da studio.

Dalla massa di fotografie scattate (circa 4.000), sceglie poi una serie di 17 ritratti che vengono esposti alla Pace/McGill, una nota galleria d’arte che rappresenta vari artisti di primo piano, ottenendo un ottimo riscontro critico e commerciale (le foto, in serie di 10, vengono vendute a prezzi tra i 20.000,00$ e i 30.000,00$ l’una). Il lavoro viene poi esposto nei maggiori musei e raccolto in un volume edito da Steidl.

Sennonché, e qui si concretizzano i terrori del fotoamatore, una delle teste fotografate, probabilmente la migliore della serie, è quella di Erno Nussenzweig, commerciante di diamanti in pensione e appartenente alla comunità ebraica chasidica, il quale solo nel 2005 si accorge di come il suo viso è stato usato e fa causa all’artista e alla galleria sostenendo che l’esibizione, la pubblicazione e la vendita dell’immagine, realizzata contro la sua volontà, è illegittima (la legge dello stato di New York impedisce l’uso pubblicitario o commerciale dell’immagine altrui senza consenso). Chiede quindi il divieto di ulteriore esibizione e pubblicazione, oltre ad un cospicuo  risarcimento, perché l’uso che è stato fatto della sua immagine gli causa un grave pregiudizio personale in quanto calpesta le sue convinzioni religiose, in particolare il biblico secondo comandamento che nel proibire l’idolatria vieta la realizzazione di qualsiasi immagine.

L’esito della vicenda è interessante: il tribunale, nella sentenza di primo grado, confermata appello, dopo aver stabilito che la fotografia di diCorcia rientra nella definizione legale di arte, tutelata dal Primo Emendamento (libertà di opinione), dà ragione al fotografo così motivando: “è chiaro che parte attrice ritiene che l’uso della fotografia che mostra le sue sembianze sia profondamente offensiva. La sincerità delle sue convinzioni religiose non è messa in discussione dalle parti resistenti o dalla corte. Ma, pur comprendendo la sofferenza emotiva che la parte attrice deve subire, la sua richiesta non può  essere accolta. Al riguardo, la giurisprudenza ha uniformemente applicato le garanzie costituzionali del Primo Emendamento anche a fronte di un uso profondamente offensivo delle sembianze di una persona. (…) Questi esempi illustrano sino a che punto le deroghe costituzionalmente protette al diritto alla privacy siano mantenute valide nonostante la manifestazione di opinione o l’opera d’arte possano avere conseguenze devastanti, ancorché involontarie, sul soggetto o possano addirittura essere ripugnanti. Come è stato riconosciuto dalla corte d’Appello in Arrington contro New York Times, questo è il prezzo che ciascuno deve essere preparato a pagare in una società in cui l’informazione e le opinioni circolano liberamente”.

Tutta questa vicenda mi è tornata in mente dopo che l’altro giorno si è parlato di autenticità, di foto vere e di vere foto, per via del lavoro di diCorcia nell’area grigia a cavallo tra costruzione e realtà con il quale ha realizzato immagini che hanno avuto una grande influenza. Nella foto incriminata, il soggetto guarda in macchina con un’espressione consapevole, quasi di riprovazione; l’illuminazione chiaramente artificiale sul fondo nero dà l’impressione di una fotografia realizzata con la collaborazione del soggetto; invece, Mr. Nussenzweig se ne stava andando per i fatti suoi e non aveva la minima idea di essere usato come comparsa involontaria nella rappresentazione di un fotografo invisibile. Nella foto c’è una compresenza di artificioso e di spontaneo; il fatto che nella fotografia finzione e realtà siano inestricabilmente legate è tema che tuttora consente di effettuare interessanti esperimenti, e l’esito della vicenda giudiziara prova che  anche alla luce del diritto costituzionale (americano) si tratta di esperimenti che vale la pena di condurre, ancorché a prezzo della violazione di altri diritti protetti dalla legge.

4 pensieri su “Nussenzweig v. diCorcia: autenticità, privacy e fotografia

  1. l`America riesce sempre a sorprendermi… alimenta la sensibilità verso la privacy, facendo quasi a gara con il Regno Unito e poi con l`Europa tutta nell`estremizzare certe tutele e poi… e poi ristabilisce le priorità a favore della libertà di opinione. Un approccio liberale che non desideriamo diventi libertario ma che sarebbe auspicabile potesse bilanciare talune schizofrenie oggi di moda nel nome della tutela.
    Un bel post attuale. grazie.

  2. Interessante la vicenda e l’epilogo.
    Grazie.

    La privacy è questione delicata, e assistiamo quotidianamente ad eccessi, in un senso o nell’altro, e perfino a paradossi.
    Nel mio piccolo, credo che l’artista avrebbe potuto prendere qualche precauzione in più, anche se la raccolta del consenso a fine flashata avrebbe limitato il numero di scatti possibili.
    Ma è solo il mio sentire.
    Per amor di precisione (o di pignoleria), e soprattutto per evitare il consolidarsi di un possibile equivoco, preciso che il termine “autenticità” da me introdotto l’altro giorno su queste pagine non si riferiva alla modalità di ripresa, alla sua costruzione o alla sua naturalità. Per autenticità intendo la sincerità degli intenti, in opposizione per esempio alla scimmiottatura di un filone di successo, alla ricerca prioritaria dell’originalità, alla replica infinita di un déjà vu, eccetera. Possono essere autentiche (o non autentiche) una foto rubata, una messinscena, uno still life, una foto di famiglia o un fotomontaggio, indifferentemente.

    Inciso probabilmente superfluo, ma forse l’altro giorno non ho avuto modo di spiegarmi meglio.
    Un saluto a tutti!

  3. Giuseppe, ti ringrazio per la precisazione. Provo a spiegare perché mi è venuto in mente proprio diCorcia e Heads con riferimento a questa questione.

    L’autenticità credo debba essere presente su entrambi i versanti, sia quello dell’intenzione, che deve essere coerente, sincera, onesta e di un certo spessore; sia quello dei mezzi scelti, che devono essere a loro volta necessariamente coerenti con l’intenzione e perciò richiedono assoluta consapevolezza.

    Escludo che diCorcia s’illudesse che il suo progetto non avrebbe sollevato qualche obiezione, a maggior ragione quando ha deciso di inserire la foto di un ebreo ortodosso nella serie; però quella era la direzione verso cui andava l’evoluzione della sua fotografia, ci son voluti due anni per ottenere esattamente le foto che voleva lui e le ha esposte lo stesso; e, come ha dichiarato durante la causa, non c’era altro modo di realizzare quello specifico progetto se non in quel modo lì, con i flash nascosti e i soggetti ignari e tutto il resto, con questo assumendosi anche il rischio di passare dei guai giudiziari, come poi in effetti è successo.

    A mio modo di vedere i due aspetti (intenzione e mezzi, o cosa e come) sono entrambi fondamentali; poi si può anche dare più importanza all’uno e dare l’altro per scontato (o trovare più difficile mettere a fuoco l’uno piuttosto che l’altro); questo non vuol dire che l’altro sia meno importante, semmai che è così importante (o già assodato) da non essere messo nemmeno (o non più) in discussione.

  4. Pingback: Arne Svenson, le finestre indiscrete e i diritti fondamentali | pensierifotografici

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